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La strada di Levi - Scheda del film

CINEFORUM ARCIFIC OMEGNA

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in collaborazione con:

CINEMA SOCIALE – S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

PREMIO GRINZANE CINEMA

Giovedì 15 novembre 2007 – scheda n. 6 (736)

 

Il mio migliore amico

 

Titolo originale: Mon meilleur ami


Regia: Patrice Leconte


Sceneggiatura: Patrice Leconte, Jérôme Tonnerre. Fotografia: Jean-Marie Dreujou.

Montaggio: Joëlle Hache. Musica: Xavier Dermeliac. Scenografia: Ivan Maussion.

Interpreti: Daniel Auteuil (François), Dany Boon (Bruno), Julie Gayet (Catherine),

Julie Durand (Louise), Henri Garcin (Delamotte), Jacques Mathou (il padre di Bruno).

Produzione: Fidélité Productions. Distribuzione: Lucky Red.

Durata: 94’. Origine: Francia, 2006.

 

Il regista

Patrice Leconte, parigino, classe 1947, è regista di film delicati e ambigui, con venature riflessive, dallo stile classicamente solido, sostenuti da attori di classe. Nel 1976 ha esordito con Il cadavere era già morto, poliziesco con risate. Ha girato una ventina di film, tra i quali Tandem (1987), L’insolito caso di Monsieur Hire (1989, visto al Cineforum), Il marito della parrucchiera (1990, visto al Cineforum), Ridicule (1996), La ragazza sul ponte (1999), L’uomo del treno (2001, visto al Cineforum) e Confidenze troppo intime (2004, idem come sopra).

 

La critica


È dolceamaro, il gusto di Il mio migliore amico. Dopo Confidenze troppo intime, commedia raffinata sulle strategie tortuose del desiderio, Patrice Leconte e il cosceneggiatore Jérôme Tonnerre raccontano una storia d'amicizia che ha la struttura di un apologo, anzi proprio d'una fiaba. Del primo, il film ha l'evidente tono didascalico. Della seconda ha la dolcezza, appunto, ma anche l'improbabilità.

Tratto da un soggetto di Olivier Dazat, Il mio migliore amico comincia dalla fine, o almeno da una fine possibile. Al funerale di un suo cliente, François (Daniel Auteuil) conta gli amici del defunto: sette, compresa la vedova. E nessuno sembra particolarmente scosso, in primo luogo la vedova, Non è (ancora) lui il protagonista della cerimonia, ma lo sarà di certo, più in là nel tempo. La circostanza lo inquieta. Lo inquieta a tal punto, da suggerirgli di parlarne ai suoi, di amici, riuniti qualche ora dopo attorno a un tavolo. Qual è il senso di una vita, di una storia di vita, se la sua conclusione non è coronata dalle lacrime calde e dal sincero dolore di chi resta? Così s'interroga François, e così hanno l'aria di pensare i suoi commensali. Molte sequenze più tardi, Bruno (Dany Boon) confuterà alla radice questa prospettiva, e lo farà proprio da quella (improbabile) del morto, di qualsiasi morto. Tanti o pochi che siano gli amici in lutto, certo il diretto interessato non ha mai modo di dolersene,e tanto meno di gioirne. La sceneggiatura questo fa dire, su per giù, a Bruno. Ma poi la questione non è più ripresa. D'altra parte, stando alla vicenda, in fatto d'amicizia Bruno è il più affidabile ed esperto. E così ci par lecito supporre che Leconte e Tonnerre ne condividano l'opinione: non è in vista del proprio funerale che un uomo o una donna possono interrogarsi sul senso e sul valore dell'avere amici. Anzi, così più d'una volta suggerisce il film, la domanda decisiva è quale verbo sia più consono al sostantivo amico: avere o essere? Per François, ma forse anche per i suoi commensali, non ci sono dubbi: gli amici si hanno o non si hanno. Insomma, rientrano in una sorta di contabilità delle relazioni umane, di economia biografica, E forse li si accumula e li si investe, come si fa con gli oggetti e con il denaro. Solo così prende senso la scommessa che sta al centro del film. Riuscirà o non riuscirà Francois a dar conto, a breve, di un "migliore amico" attendibile e garantito? È un apologo e una fiaba, Il mio migliore amico. Se non lo fosse, non avrebbe via d'uscita narrativa dalla contraddizione in cui la sceneggiatura si infila da sé. Posta nell'ambito dell'avere, l'amicizia è esclusa per definizione. Allo stesso modo, è esclusa per definizione quella che François e gli altri accettano come prova d'amicizia, appunto. Che cosa è pronto a fare per noi un amico? Questo sarebbe il metro adatto a misurarne l'autenticità, come se si trattasse del vaso greco che François e Catherine  si disputano con la loro scommessa. Dietro all'apologo e alla fiaba, sullo sfondo dell'umanità che la percorre, c'è una solitudine diffusa e sistematica, una solitudine che è il cuore non detto del racconto. Basta pensare all'incontro di François con un amico compagno di scuola, il momento più tristemente comico del film. È una smentita crudele della sua memoria e di quanto resta del suo narcisismo, quello che François se ne sente dire. Ma a i nostri occhi di spettatori è ancor più crudele il piccolo disastro umano che Leconte e Tonnerre riescono a raccontare in poche inquadrature. Chiunque fosse tanti anni fa, oggi di quel ragazzino non resta che un ornino distrutto, incattivito, oppresso e intristito da una moglie che lui stesso opprime e intristisce. Sono soli, appunto, molti dei personaggi di Il mio migliore amico. Forse è questa solitudine che l'apologo vuole illuminare, ancor prima della miseria d'affetti del protagonista. Sola è Gayet, la sua figlia ventenne, e sola è la sua compagna. Solo è anche Bruno, anzi soprattutto Bruno, chiuso tutto il giorno nel suo taxi, alle prese con la sua disperata cultura da parole crociate. Lo è nonostante la sua cordialità e la sua disponibilità. Soli, infine, sono gli spettatori della versione francese di "Chi vuol essere milionario", che in massa si sentono "amici" di uno sconosciuto tanto indifeso da suscitare la loro pena, e da gratificare la loro illusione d'umanità. Ha un lieto fine, Il mio migliore amico. François e Bruno scoprono insieme di non avere amici, ma di esserlo l'uno per l'altro. In platea se ne condivide la scoperta, soddisfatti. Così vuole la fiaba, per quanto improbabile sia.

Roberto Escobar, Il Sole – 24 Ore, 17 dicembre 2006

 

Quando posso vedo volentieri la trasmissione francese «Qui veut gagner des millions?» condotta dallo sfingeo Jean-Pierre Foucault che ora ritrovo nel pieno delle sue funzioni in Il mio migliore amico. In questo film il regista Patrice Leconte fa convergere abilmente la suspense del racconto con quella del quiz televisivo nel momento in cui il candidato dovendo rispondere alla domanda milionaria (Manet o Monet?) può ricorrere all'aiuto telefonico di un amico. Domanda: messi in questa situazione, vi verrebbe subito in mente a chi telefonare? Ovvero intorno a voi c'è qualcuno che ritenete il vostro migliore amico? Ne dubita, nel corso di una cena comitale al ristorante, l'antiquaria Catherine polemizzando con il socio François, da lei stigmatizzato come incapace di rapporti umani. Molto risentito, l'uomo si accalora fino a scommettere che entro dieci giorni sarà in grado di presentarle un vero amico del cuore. La posta in gioco? Un antico vaso greco, recentemente acquistato a un'asta da François sulla suggestione della leggenda che lo accompagna: quella di essere stato utilizzato per raccogliere le lacrime del primo proprietario in lutto (guarda caso) per la morte di un amico. Il fatto che il vaso sia fragilissimo è il primo campanello d'allarme sugli aspetti prevedibili di una trama per altri aspetti originale. Anche se l'incidente avrà una coda a sorpresa, si intuisce da subito che il vaso finirà a pezzi. Altra facile previsione: pur inciampando in una teoria di bizzarri incidenti di percorso, François troverà la persona che cerca. Terza aspettativa da mettere in conto: il taxista Bruno, che da anni si candida come partecipante a tutti i quiz e viene regolarmente respinto, arriverà alla fine in TV di fronte all'implacabile Foucault. Che tipo sia François lo abbiamo capito fin dalla scena di apertura, quando presenziando a un funerale non rinuncia a telefonare e a infilare, al momento delle condoglianze, la proposta di acquistare un comò del defunto. Anche Bruno ha un difetto per cui lo chiamano «l'uomo che sapeva troppo»: assilla infatti i clienti del taxi con una valanga di notizie storiche sulle strade e le piazze che attraversa. Sulle prime impaziente di fronte a queste chiacchiere erudite, l'antiquario si convince poco a poco che il loquace giovanotto è il tipo da utilizzare per vincere la scommessa. La scarsa presenza femminile (François non mostra grande trasporto per la sua amante, Bruno vive ancora all'ombra dei genitori e la scommettitrice Catherine è lesbica) farebbe perfino sospettare una sottaciuta implicazione omosessuale. Ma non è il caso. Siamo invece in un minimalismo naïf alla Zavattini, memore forse delle disavventure di Aldo Fabrizi in Prima comunione. Il primo personaggio al quale François si rivolge per ottenere un'attestazione di amicizia è un antiquario, che rifiuta di considerarsi sodale di un concorrente che gli ruba i clienti. Un altro è un antico compagno di scuola che detesta il protagonista da quando, undicenne, già lo considerava spaccone e rompipalle. A niente servono i manuali su come conquistare gli amici, le conferenze e, almeno sulle prime, le lezioni di simpatia sollecitate al malcapitato Bruno. L'educazione sentimentale dell'uomo sprovvisto di amicizie procede stentatamente fra gli spalti della partita domenicale e le cene in famiglia dai genitori del tassinaro per ingraziarsi i quali gli compera un vecchio tavolo tirato giù dalla soffitta. Esaurito lo sprint iniziale, il film procede con sviluppi non sempre plausibili. Per fortuna, accanto a Dany Boon che assicura il valore aggiunto di una freschezza di cabarettista, Daniel Auteuil si conferma un eclettico miniaturista di caratteri, capace di trascorrere dall'autorevole Napoleone di Virzì a questo compassionevole ometto senza qualità.

Tullio Kezich, Il Corriere della Sera, 6 dicembre 2006

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