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Bobby - Scheda del film
 CINEFORUM ARCIFIC OMEGNA

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in collaborazione con:

CINEMA SOCIALE – S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

PREMIO GRINZANE CINEMA

Giovedì 24 gennaio 2008 – scheda n. 14 (744)

 

 

Bobby

 

 

Titolo originale: Bobby

 

Regia e sceneggiatura: Emilio Estevez

 

Fotografia: Michael Barrett. Montaggio: Richard Chew.

Musica: Mark Isham. Scenografia: Patti Podesta.

Interpreti: Anthony Hopkins (John Casey), Herry Belafonte (Nelson), Freddy Rodriguez (José),

Laurence Fishburne (Edward Robinson), Lindsay Lohan (Diane), Elijah Wood (William),

Sharon Stone (Miriam), William H. Macy (Paul Ebbers), Demi Moore (Virginia Fallon),

Emilio Estevez (Tim), Martin Sheen (Jack), Helen Hunt (Samantha).

Produzione: Bold Films Llc. Distribuzione: 01.

Durata: 114’. Origine: Usa, 2006.

 

 

Il regista

 

Figli d’arte. Emilio Estevez ha anche un altro cognome: Sheen. È figlio di Martin Sheen, attore famoso che compare anche in questo film. Emilio è il primogenito di quattro figli e fratelli, tutti attori: lui, Charlie Sheen, Ramon Estevez e Renée Estevez. Qualcuno dei fratelli ha usato il cognome vero del padre (Estevez), qualcuno ha usa il nome d’arte di famiglia (Sheen). Gli Estevez-Sheen sono di origini galiziane per parte di padre e irlandesi per parte di madre. La madre emigrò negli Stati Uniti durante la guerra di indipendenza irlandese nella quale si era impegnata con l’Ira. Emilio Estevez, regista di Bobby, nato a New York nel 1962, è stato attore in I ragazzi della 56esima strada, Repo Man, Breakfast Club e altri film. Dopo alcuni film minori come regista, Wisdom (1986), Il giallo del bidone giallo (1990), Conflitti di famiglia (1996), Rated X (2000) e Culture Class in America (2005), ha girato Bobby, premiato a Venezia nel 2006.

 

 

La critica

 

Emilio Estevez è un quarantacinquenne che conserva quello sguardo malinconico da ragazzo presente in molti teen movie degli anni ’80, dal bellissimo I ragazzi della 56° strada di Coppola a The Breakfast Club. Figlio dell’attore Martin Sheen, ha vissuto sin da bambino il clima impegnato dell’America liberal degli anni ’60. Ed è stato quindi per lui naturale tornare alla notte in cui tutto finì. Per l’America politicamente impegnata l’assassinio di Robert Kennedy, candidato democratico alla presidenza, fu la fine delle speranze di rinnovamento, la definitiva perdita dell’innocenza di un paese che stava sprofondando nell’inferno del Vietnam. Estevez decide di raccontare Bobby usando una prospettiva laterale: non un biopic (Kennedy appare solo in immagini di repertorio) ma una ricognizione tra ventidue personaggi presenti la notte dell’attentato avvenuto all’Hotel Ambassador di Los Angeles. Il film sembra concentrarsi, più che su Bob Kennedy, sulla disperata necessità che un paese in crisi di identità aveva di quell’uomo. Un emblema per ogni potenziale riconciliazione: politica, razziale (da pochi mesi la comunità afroamericana aveva dovuto fare i conti con l’omicidio di Martin Luther King), internazionale. Estevez prova a ricostruire le storie di persone normali - alle prese con i propri demoni, le proprie speranze, i propri fallimenti - che nel senatore Kennedy vedevano il barlume di una prospettiva, la promessa di un cambiamento. Non tutto nel film funziona. Il modello corale altmaniano spesso fa acqua e non tutti i personaggi sono trattati con sufficiente lucidità. Alcune storie si perdono per strada e non sempre la diligente regia di Estevez tiene insieme il complicato affresco globale. Ma la passione civile e politica del regista è contagiosa, e l’emozione viene profusa con ostentata generosità. Del lungo finale, che utilizza un accorato discorso di Kennedy sulla conciliazione e sulla necessità di una generale pacificazione, resta la febbricitante sensazione di una drammatica attualità per un’America che troppo spesso ha soffocato nel sangue le sue speranze di redenzione.

FFederico Pedroni, Film Tv, 23 gennaio 2007

 

Fino alle ultime sequenze Robert Kennedy non “entra” nella storia, di Bobby. All’Ambassador di Los Angeles lo attendono in molti, quel 6 giugno 1968 che sarà l’ultimo giorno della sua vita. Lo attende Paul (William H. Macy), il direttore dell’Hotel, e con lui lo attendono John (Anthony Hopkins), un vecchio portiere in pensione, e i tanti altri personaggi: una ventina, considerando solo i principali. Tuttavia, prima dell’epilogo tragico, lo si vede e lo si sente solo su uno schermo televisivo. È dunque il protagonista atteso e assente del film di Emilio Estevez, il giovane senatore in corsa alle primarie del partito democratico. Ed è un protagonista che racconta la memoria di un Paese, e la sua nostalgia. La struttura narrativa di Bobby ha modelli anche troppo evidenti, dal cinema corale di Robert Altman a Grand Hotel (1932). Proprio il famoso «gente che va, gente che viene» di quel classico di Edmund Goulding ripete John, parlando con il vecchio amico Nelson (Harry Belafonte). Poi, non contenta, la sceneggiatura (dello stesso Estevez) gli mette in bocca anche il titolo del film, perché la citazione e il paragone risultino ben chiari al pubblico. Ed è questo uno dei primi “segnali” per noi che stiamo in platea: le intenzioni di Estevez sono buone, e forse ottime, ma il film non ne è sempre all’altezza. Sono la memoria e la nostalgia, appunto, le buone intenzioni di Bobby. Quasi quarant’anni dopo la fine violenta dell’era dei Kennedy, il film volge lo sguardo all’indietro, a un tempo in un certo senso mitico. Estevez aveva 6 anni, quando Sihran Sihran (nel film David Kobzantsef) sparò al secondo dei fratelli Kennedy. Gli Stati Uniti erano ormai da tempo in Vietnam, e una parte dell’opinione pubblica già chiedeva che quell’avventura terminasse. Ed erano forti nella nazione le speranze che la vittoria di «Bobby» aprisse la politica ai diritti civili, alla giustizia sociale, alla tutela dell’ambiente: ma alle speranze mettevano fine quei colpi di pistola sparati all’Ambassador (due mesi prima, il 4 aprile, era stato assassinato anche Martin Luther King). A tutto questo, dunque, guarda Estevez: e certo la sua non è solo memoria e nostalgia del passato, ma anche critica del presente. La storia corale di Bobby sta tutta dentro lo spazio chiuso dell’albergo, correndo lungo le storie singolari di personaggi che non sono o non vorrebbero essere emblematici. Sotto gli occhi del vecchio John, testimone di 47 anni di vita dell’Ambassador e del Paese, si muovono così cantanti alcoliste e giovani politici, agiati borghesi e immigrati ispanici: ognuno è o dovrebbe essere solo se stesso, nella propria individualità. Anche questa è una delle buone intenzioni di Estevez: questa scelta di raccontare un’epoca attraverso la normalità dei suoi uomini e delle sue donne. Tra loro ci sono José e Miguel (Freddy Rodriguez e Jacob Vargas), camerieri alle prese con il razzismo del loro capo Timmons (Christian Slater). E c’è Edward (Laurence Fishburne), il cuoco afro-americano che li invita a superare la rabbia - così dice -, lasciando ai bianchi il tempo necessario per “abituarsi” alla necessità dell’eguaglianza e del rispetto. Più radicale è invece Paul, il direttore wasp, tanto risolutamente e moralmente kennediano da licenziare Edward. E c’è Miriam (Sharon Stone), la moglie di Paul, che lui tradisce con una dipendente (qui il suo radicalismo morale smette d’essere coerente). E ci sono ancora Samantha (Helen Hunt) Jack (Martin Sheen), marito e moglie legati da un affetto tenero eppure stanco. Tra tutti, spiccano poi Diane (Lindsay Loan) e William (Elijah Wood), che all’Ambassador aspettano il loro turno per sposarsi. Sono forse proprio loro i personaggi più veri e più imprevisti di Bobby (anzi, forse sono i soli veri e imprevisti). E insieme sono i più legati a quel tempo lontano. Lui sta per andare in Vietnam; e lei lo sposa perché l’esercito non lo mandi a morire. Sono soli, Diane e William, abbandonati alla paura, eppure sono pieni di coraggio. Alla fine, è alle loro speranze che spara Sihran Sihran. Solo al termine di quel 6 giugno, e anche del film, Robert Kennedy entra nella storia. All’Ambassador tutti i personaggi si stringono attorno a lui, che ha vinto le primarie in California. E solo ora il film di Estevez riesce ad arrivare fino alla nostra emozione. Il merito non è delle molte storie narrate, né del loro intrecciarsi. Il merito non è cinematografico, insomma, ma “storico” [...].

Roberto Escobar Il Sole-24 Ore, 4 febbraio 2007


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