Titolo originale: Sketches of Frank Gehry
Regia: Sidney Pollack
Sceneggiatura: Zack Snyder, Kurt Johnstadt, Michael Gordon.
Fotografia: Marcus Birsel, Ultan Guilfoyle, Sydney Pollack, Claudio Rocha, George Tiffin.
Montaggio: Karen Schmeer.
Con: Frank O. Gehry, Charles Arnoldi, Barry Diller, Michael Eisner, Rolf Fehlbaum,
Hal Foster, Mildred Friedman, Bob Geldof, Dennis Hopper, Sydney Pollack, Norman Rosenthal.
Produzione: Mirage Enterprises, Pbs. Distribuzione: Bim.
Durata: 83’. Origine: Usa, 2006.
Il regista
Sidney Pollack è un nome importante nel cinema americano. Fin dagli anni Settanta. Nato nel 1934 a Lafayette, nell’Indiana, da immigrati russi ebrei, studia recitazione a New York, poi insegna teatro e fa il regista teatrale. Diventa attore per la tv e per il cinema, comincia a dirigere telefilm, per esempio per la serie del Dr. Kildare. Nel 1965, la Paramount gli offre la possibilità di debuttare nella regia di un lungometraggio con La vita corre sul filo, con Sidney Poitier. Poi comincia la lunga fila di film con Robert Redford, suo attore prediletto: Questa ragazza è di tutti (1966), Corvo rosso non avrai il mio scalpo (1972), Come eravamo (1973), I tre giorni del Condor (1975) e Il cavaliere elettrico (1979). Dirige anche Burt Lancaster in Joe Bass l’implacabile (1968) e Ardenne ‘44, un inferno (1969), Jane Fonda in Non si uccidono così anche i cavalli? (1969), Robert Mitchum in Yakuza (1975, uscito da poco in dvd), Al Pacino in Un attimo, una vita (1977), Paul Newman in Diritto di cronaca (1981) e Dustin Hoffman in Tootsie (1982). Il suo La mia Africa (1985), con Redford e Meryl Streep, vince ben sette Oscar. Fa anche l’attore: in I protagonisti (1992) di Robert Altman, in Mariti e mogli di Woody Allen (1992) e in Eyes Wide Shut di Kubrick. Dirige la Kidman e Sean Penn in The Interpreter (2005). Nel frattempo continua sempre il suo lavoro di produttore. Grande interprete del classicismo hollywoodiano rivisitato dentro i disincanti degli anni Settanta, Pollack arriva per la prima volta al documentario con questo Frank Gehry, creatore di sogni.
La critica
Frank O. Gehry è l’architetto del museo Guggenheim di Bilbao. Quell’astronave, quelle lucide scatole incastrate una nell’altra. «Per fare il Guggenheim ho visto tutto. Il costruttivismo russo, certo, Tatlin, ma anche Malevich, El Lissitsky, e anche Matisse, e anche Moby Dick». Gehry è del 1929, nato in Canada, radici ebraiche, vero cognome Goldberg, tanti mestieri da giovane, una laurea in architettura in California, la frequentazione di quegli artisti iconoclasti che volevano «togliere l’arte dal piedistallo» e lo spingevano a praticare «interventi architettonici quasi improvvisati», alla larga dal rigore del moderno, niente forme pure, ben accolte le fratture, benvenuto il caos, uso di materiali non canonici e di scarto (reti metalliche, lamiere, tubi), un’architettura pop che si ispirava ai lavori e alle forme dell’arte degli anni Settanta (anche Claes Oldenburg ha lavorato con lui). Gehry è una persona simpatica, allegra e piena di idee. Quasi tutte piuttosto strambe e bizzarre, per un architetto: basta guardare i suoi sketches, gli schizzi che gli vengono in mente e che traccia quando si mette a inventare un edificio. Schizzi che sembrano gomitoli sgomitolati e aggrovigliati. Non ci si vede dentro, di primo acchito, un palazzo, una casa, un ospedale o un museo. I disegni di partenza sono una specie di tracciato labirintico, una linea continua che si avvolge e si svolge, non va mai dritta, non ama l’angolo deciso. Se l’architettura normale è fatta di angoli retti e di linee ugualmente rette, verticali oblique orizzontali quasi sempre dritte, Frank Gehry non ci sta. Gli piacciono la linea spezzata, la curva, il tondo, l’ottuso, ciò che si innalza e sfida la gravità perché non sale a piombo ma si attorciglia, scende, si rialza, si piega, si biforca. Insomma, Gehry non è un architetto razionalista, nessun ornamento, solo rigida severità, niente fantasticherie. Gehry pensa e usa lo spazio come luogo dove infilarsi, girarsi e rigirarsi. Ama costruire edifici che inventino spazi, non un luogo uniforme ma più luoghi sorprendenti, forme architettoniche galleggianti, che sfidano la fisicità e la pesantezza dei materiali. L’hanno definito postmoderno: da tanto che ama gli intarsi e le svolte, sembrerebbe più un postbarocco. E se i suoi sketches arruffati fino a pochi anni fa non potevano diventare degli edifici perché i problemi costruttivi erano impossibili da superare, oggi ci sono i computer a fare il lavoro duro: così lui è diventato famoso, è quello di Bilbao. (Per saperne di più: Francesco Dal Co, Kurt W. Forster, Hadley Soutter Arnold, «Frank O. Gehry, Opera completa», Electa, 1998.)
Difficile che Gehry conosca Alberto Savinio. Certo non sarebbe per niente d’accordo con lui. Savinio, in «Dico a te, Clio» (che è del 1939 e si può leggere nell’Adelphina) fa l’elogio della linea retta e si dichiara feroce avversario della stupida curva: «Per Protagora sofista il cerchio indicava la perfezione. Noi preferiamo l’angolo, il rettangolo, il quadrato. Chi loda Giotto per il suo O, non sa che danno gli fa. Non avesse altra qualità il cubismo, lo ameremmo per la sua sola poesia dell’angolo. Chi canterà la stupidità della curva? Apprezziamo le ragioni d’igiene che nelle case moderne hanno determinato l’arrotondamento degli angoli, ma la metafisica della camera ne patisce. Il cerchio è anche il segno dell’immortalità. Questa condizione inumana noi non l’amiamo, non la desideriamo e aspettiamo con fiducia l’umanissima morte». Frank Gehry è tutto curve spezzate (non ingenuamente circolari!), la sua architettura non sappiamo se sia immortale, ma certo, se come dice Savinio, la linea retta e finita è segno della nostra mortalità, allora il modo che ha Gehry di disegnare e costruire edifici e spazi è una sfida, oltre che alla gravità e alla pesantezza, anche alla morte. Forse è un modo per giocare la morte, per trarla in inganno, disorientarla dentro percorsi svianti.
Sidney Pollack è amico di Frank Gehry, stanno bene insieme, parlano e scherzano, discutono, ridono, ricordano. Pollack ha in mano una videocamera, riprende Gehry, gli fa delle domande, Gehry risponde, prende della carta, comincia a costruire un modellino, taglia e incolla, prova e riprova, e il modello si inarca, si duplica, si apre. Un architetto ragazzino che gioca con carta e forbici a immaginare grandi costruzioni. Pollack, che ha 71 anni, non aveva mai girato un documentario: «In tutto quello che fa, Frank è di un’originalità che sfiora talvolta la perversità. Siamo amici da anni e abbiamo passato molti momenti insieme a ragionare sulle difficoltà che lui incontra nel trovare una forma di espressione personale in una disciplina in cui le esigenze commerciali sono molto costrittive. Spesso hanno proposto a Frank di girare un documentario su di lui. Quando è stato lui a domandare, a me, di realizzarne uno, ho creduto che fosse diventato matto. E non soltanto perché ignoro tutto sulla realizzazione di un documentario, ma anche perché non so nulla di architettura. “È per questo che tu sei perfetto”, ha concluso». Così, Pollack, digiuno di architettura e di documentari, gira un documentario sull’architettura di un amico. E riesce a dire l’amicizia e l’architettura. Ci ha messo cinque anni a girarlo, ha guardato Gehry tracciare i suoi schizzi, passare ai modellini, prima in carta e scotch, poi in legno, ha osservato la realizzazione dei disegni tecnici, è andato sui cantieri, è entrato con l’amico dentro gli edifici, a guardare quello che è venuto fuori da quegli schizzi iniziali. Anche Pollack sembra disegnare con discrezione e grazia uno schizzo dell’amico. Ha scelto di usare sia la pellicola che il video. Con la prima riprende le costruzioni, le ammira con calma, dal museo di Bilbao alla Walt Disney Concert Hall di Los Angeles, alla fenomenale DG Bank di Berlino che ha nel ventre un’enorme forma sospesa, misteriosa, apparentemente malleabile. Con il video scrive e descrive i colloqui con Gehry, lasciando scorrere il discorso e il tempo, senza formalità. E siccome Pollack sa poco o nulla di architettura, ecco che pone domande anche ingenue ma giuste per dar modo a Gehry di rispondere con efficacia, e i discorsi vanno da altre parti, anche verso l’hockey sul ghiaccio di cui Gehry è appassionato. Un Frank Gehry visto dal di dentro, con l’ossessione della luce, del caos e della bellezza, con la voglia e la paura di organizzare uno spazio senza costringerlo.
Jessica Reeves, sul «Chicago Tribune» (trovato su imdb), centra il punto quando scrive che Gehry può essere facilmente preso per il protagonista di un romanzo di Saul Bellow o di Philip Roth, «tutto ripiegato su se stesso, nevrotico e incantevole solo quando sta bene a lui». Forse è grazie a questo suo essere così fuori del normale e così dentro a una tranquilla vitalità, che i tanti che gli stanno intorno lo capiscono al volo e lo assecondano con perfetta rispondenza. Tagliare lo spigolo, togliere la copertura, alzare una torre, far girare questa parete, trasformare un muro in una fisarmonica, tutto come se muri, cupole, vetrate, cemento e titanio fossero creta, e tutto detto in un linguaggio che non ha nessuna affettazione e non usa neanche l’ombra di un qualche specialismo. Nel film viene sentito anche un professore che non ama le sue architetture: comunque, lui, Frank Gehry, è tranquillamente affascinante.