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Il grande capo - Scheda del film

CINEFORUM ARCIFIC OMEGNA

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in collaborazione con:

CINEMA SOCIALE – S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

PREMIO GRINZANE CINEMA

Giovedì 7 febbraio 2008 – scheda n. 16 (746)

 

Il grande capo


 

Titolo originale: Direktøren for det hele

Regia e sceneggiatura: Lars Von Trier

Fotografia: Automavision@. Montaggio: Molly Marlene Stensgård.

Scenografia: Simone Grau.

Interpreti: Jens Albinus (Krsitoffer/Sven E./il direttore), Pater Ganzer (Ravn),

Iben Hjejle (Lise), Henrik Prip (Nalle), Mia Lyhne (Heidi), Casper Chirstensen (Gorm),

Louise Maritza (Mette), Jean-Marc Barre (Spencer),

Fridrik Thor Fridriksson (Finnur, il direttore islandese). Produzione: Zentropa Productions.

Distribuzione: Lucky Red. Durata: 99’. Origine: Danimarca, Svezia, 2006.

 

 

Il regista


 

Ben conosciuto dai frequentatori del Cineforum, Lars Von Trier è nato, in Danimarca, nel 1956, senza il Von: solo Lars Trier. Il Von gliel'hanno aggiunto i compagni della scuola di cinema, visto che lui si dava (finte) arie da aristocratico. Il suo primo lungometraggio è L’elemento del crimine (1984), premiato a Cannes e primo film della trilogia sull’Europa, con Epidemic (1987) e Europa (1991). Gira anche una Medea (1988) per la tv e fonda la sua società Zentropa. Uno dei suoi lavori migliori è The Kingdom, Il Regno, un horror macabro e ospedaliero (1994, visto al Cineforum). Nel 1995, Von Trier lancia un manifesto programmatico, il Dogma, che impone di girare i film senza alcun ricorso ad artifici. Le regole del Dogma sono applicate in Le onde del destino (1996, visto al Cineforum), Gran Premio della Giuria a Cannes. Idioti (1998, visto al Cineforum) arriva a una completa indistinzione tra realtà e messinscena. Dancer in the Dark (2000) vince la Palma d’oro a Cannes. Poi arrivano Le cinque variazioni (2003), un film “teorico”, e Dogville (2003), visto al Cineforum, primo film di una “trilogia americana”, il cui secondo episodio è Manderlay (2005). Inaspettatamente, invece di girare il terzo episodio della trilogia, Von Trier ha girato una strana commedia, Il grande capo.

 

 

La critica

 

 

Dietro una finestra, lontano e in campo lungo, Lars von Trier ci guarda attraverso la sua macchina da presa. E intanto gioca con le parole. «Voi vedete il mio riflesso», dice pressappoco, «ma questo film non vuol farvi riflettere». Anzi, insiste, non ha altro significato che quel che si vede, immediatamente. E noi siamo disposti a credergli. Li prendiamo sul serio, lui e la sua immagine al di là del vetro. Insomma, fin dall’inizio ci disponiamo a non perderci in riflessioni, mentre passano le immagini di Il grande capo (Direktøren for det hele, Danimarca e Svezia, 2006, 99’).
Poco importa che, più tardi, la bionda Lise (Iben Hjejle) provi a farci desistere. «La vita è come un film Dogma», le fa dire von Trier, che ama autocitarsi e far di se stesso il centro del mondo, o almeno del cinema. «Il fatto che sia faticosa», spiega poi Lise, «non significa che non dica delle verità». Come darle torto, almeno nel senso che è faticoso di certo, un film Dogma (ossia un film che risponda ai canoni stretti e all’orgia di must, forbidden, not acceptable, truth indicati per iscritto nel lontano 1995 dal regista danese per sé e per i suoi fedeli). Per quanto in molti si sforzino di sostenere il contrario, è solo alla fine che un film Dogma dà il meglio di sé: ossia, quando lo spettatore può alzarsi dalla poltrona, e andarsene libero e leggero per il mondo. Tutto ciò non significa che von Trier non abbia un proprio genio. Al contrario, i suoi film sono riconoscibili, e addirittura unici. Non a caso, frotte di spettatori e di critici affermano di bearsene e in fede e coscienza si impegnano a rifletterci su. Ma è proprio questo che ora lui stesso, il Gran Dogmatico, li diffida dal fare. E appunto, qualunque sia il motivo della sua strana presa di posizione, noi aderiamo con entusiasmo. Che cosa accade, nel Il grande capo? E prima ancora, che cosa ci si vede? A occhio (appunto) e croce, a spiccare è un continuo “saltellare” delle immagini. L’effetto è ottenuto per via informatica: ogni tanto, nel fluire delle inquadrature viene tolto qualche fotogramma. Anche non volendo rifletterci, a noi pare che un senso ci sia, nell’espediente. Proviamo a ipotizzare, e pensiamo al protagonista del film. Capo finto ma attore vero, dunque narcisista professionale, Kristoffer Svend (Jens Albinus) non sopporta di non essere al centro dell’attenzione. E per esserlo, così sostiene la sceneggiatura, è disposto a qualunque bassezza. Insomma, se fosse un regista cinematografico, il suo narcisismo non avrebbe remore a tagliare fotogrammi un po’ qua e un po’ là, giusto perché gli spettatori (e i critici) non dimenticassero che c’è chi comanda, dietro l’obbiettivo (e dietro il computer).
In fondo, e restando con impegno a quello che si vede, senza correre il rischio di ragionarci su, è di questo che racconta Il grande capo: di chi comanda, e come. Se si vuole, racconta di chi curi la regia di quello spettacolo troppo spesso in stile Dogma che è la vita. Prendiamo il caso di Ravn (Peter Gantzler), “diabolico” proprietario di un’impresa informatica. E tanto diabolico, appunto, che funge di non essere lui il capo. Anzi, fa la commedia – il film di Lars Von Trier è proprio una commedia – e racconta ai suoi collaboratori di quanto il “presidente” sia lontano, e di come solo a lui sia concesso di interpellarlo. Insomma, per dirla in termini spicci, si fa mediatore fra una divinità nascosta e la misera, quotidiana fatica di stare al mondo degli uomini e delle donne. Il vantaggio è evidente: nessuno potrà infastidirlo troppo con le sue richieste (non è lui che decide), ma ognuno dipenderà da lui (è solo lui che legge nella mente e nel cuore della divinità). E ancora, essendo un accorto conoscitore dell’anima umana, Ravn convince uno a uno i suoi collaboratori che il capo — quello finto, che loro credono vero — pensa a loro a uno a uno, appunto. E quelli se ne beano, o anche se ne adirano, secondo il trattamento che credono d’averne ricevuto. In ogni caso, le loro carriere e le loro vite hanno lui come riferimento. Ravn è un genio, ma certo non ha scoperto nulla di nuovo. Se non ci fossimo impegnati a evitare ogni riflessione, ci verrebbe da dire che fa quel che hanno fatto e continuano a fare in tanti, e con piena soddisfazione personale. D’altra parte, stiamo a quel che si vede nel film, e a quel che in esso si dice. Il grande capo è una commedia. Lo è per programma, come ripete spesso von Trier. Il fatto che qua e là la commedia sia faticosa — che le sue inquadrature siano volutamente punitive, allo stesso modo dei suoi colori —, non significa che non dica delle verità. La prima, e la più amara, è che non vale la pena di rifletterci su. Tanto, giura il Gran Dogmatico, tutto dipende da un capo che non c’è (a parte il Gran Dogmatico medesimo).

 

RRoberto Escobar, Il Sole 24-Ore, 14 gennaio 2007

 

Udite udite: Lars Von Trier ha fatto un film divertente. I sostenitori del cupo cineasta danese magari obietteranno che c'era un'ironia sommersa anche negli Idioti e in Dogville, ma era a tale profondità che bisognava scavare a lungo per trovarla. In realtà un precedente esiste: la serie tv Il regno, di ambientazione ospedaliera, girata nel 1994. Evidentemente Von Trier trova particolarmente buffa la Danimarca e, in particolare, le sue istituzioni: come dargli torto? Il grande capo, il film di cui stiamo parlando, non si svolge in un ospedale ma in una piccola ditta danese che elabora strategie aziendali e software per computer (che non fa nulla di concreto, in poche parole). Il direttore, Ravn, sta per venderla a un compratore, un islandese che non fa nulla per nascondere il suo disprezzo per questi danesi cialtroni e confusionari (dal film emerge un dato sociologico che ci era ignoto: a quanto pare gli islandesi hanno dei danesi un'opinione fortemente «leghista»). Ma c'è un intoppo: Ravn ha sempre detto a tutti, compratori e collaboratori, che sopra di lui c'è un «grande capo» che sta in America e al quale bisogna rispondere di tutto. Tale «grande capo» non esiste: l'ha inventato Ravn per far passare le proprie decisioni impopolari e affibbiare a qualcun altro le proprie colpe. Ma ora che gli islandesi vogliono trattare con il «grande capo» in persona, Ravn ne deve trovare uno. Assume quindi un attore, Kristoffer, che lo «interpreti» durante la trattativa. L'affare però non si chiude, gli islandesi prendono una settimana di tempo durante la quale il «grande capo» dovrà rimanere in ditta e conoscere finalmente i dipendenti che per anni ha mobbizzato con e-mail ferocissime (scritte ovviamente da Ravn) e tagli agli stipendi... Inizia così un beffardo gioco di equivoci in cui il nostro attore (magnificamente interpretato da Jens Albinus) deve imparare al volo l'assurdo linguaggio dell'informatica e tenere a bada un gruppo di impiegati che lo odiano, lo temono o magari lo amano a seconda di ciò the Ravn ha fatto loro credere nel corso degli anni (una di loro, tanto per capire, è convinta che il «grande capo» la corteggi e sia deciso a sposarla). Si arriva, nel finale, a un secondo incontro con l'islandese: dove Von Trier, ovviamente anche sceneggiatore, sfodera un colpo di teatro geniale che non vi riveleremo nemmeno sotto tortura. Il grande capo è un meccanismo labirintico con molteplici livelli di lettura: è una riflessione sulla recitazione e sulla messinscena, una lucida analisi dei rapporti umani (veri o falsi che siano...) sul posto di lavoro, un bell'esempio di «cinema nel cinema» grazie alla voce fuori campo dello stesso Von Trier che commenta la vicenda. Si ride, si sta male e ci si interroga: qualche «grande capo» ce l'abbiamo tutti, ma siamo sicuri che esista davvero?


AAlberto Crespi Da L'Unità, 5 gennaio 2007

 

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