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CINEFORUM ARCIFIC OMEGNA
in collaborazione con:
CINEMA SOCIALE – S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna
PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
PREMIO GRINZANE CINEMA
Giovedì 28 febbraio 2008 – scheda n. 19 (749) |
Daratt
Titolo originale: Daratt (Siccità)
Regia: Mahamat-Saleh Haroun
Sceneggiatura: Mahamat-Saleh Haroun, Laora Bardos. Fotografia: Abraham Haile Biru.
Montaggio: Marie-Helène Dozo. Costumi: Fatimé Lamana, Valérie Vadar. Musica: Wasis Diop.
Interpreti: Ali Bacha Barkai, Youssouf Djaoro, Hisseine Haziza, Djibril Hibrahim, F
atimé Hadje, Khayar Houmar Defallah.
Produzione: Chinguitty Films. Distribuzione: Lucky Red.
Durata: 96’. Origine: Ciad, 2006.
Il regista
Mahamat-Saleh Haroun è nato nel 1960 ad Abéché, nel Ciad. Ha studiato cinema a Parigi e giornalismo a Bordeaux. Ha lavorato a lungo come giornalista, poi è tornato al cinema. Primo corto nel 1994, Maral Tainé. Del 1999 è il suo primo lungometraggio, Bye Bye Africa, che vince a Venezia il premio per l’opera prima. Nel 2002 dirige Abouna, presentato a Cannes. Questo Daratt ha ricevuto il Premio Speciale della Giuria alla Mostra di Venezia del 2006. Ascoltiamo il regista: «Nel Ciad la guerra civile che dura dal 1965 ha fatto migliaia di vittime. Ne conoscevo molti tra i 40.000 uccisi o dispersi sotto il regno di Hissène Habré. Uno dei miei zii era tra queste vittime. Dopo il suo rapimento non l’ho più visto. io stesso sono stato ferito, ho dovuto lasciare il mio paese su una carretta, imboccando la via dell’esilio. Ho vissuto quel dramma sulla mia pelle. Ogni volta che ritorno in Ciad, mi rapporto a questa realtà del dopoguerra: è sempre là, onnipresente, come un racconto lasciato in sospeso, mai concluso, una pagina di storia che non è ancora stata filmata. Conosco i nomi degli attori che hanno preso parte a questo dramma, mi capita persino di sfiorarli. Hanno ucciso, stuprato, bruciato, funestato, saccheggiato. Se la sono presa con i più deboli che, alla fine, sono gli emarginati di oggi. I carnefici di ieri sono diventati uomini di potere e si mettono in mostra senza essere infastiditi. Ciò che è terribile nelle guerre civili è che rendono legittime tutte le atrocità, tutti i crimini e, a conti fatti, li assolvono. È questo sentimento d’ingiustizia che nutre il sentimento di vendetta, che alla fine non è che un desiderio di giustizia. Daratt non parla della guerra civile, ma delle sue conseguenze. Quello che mi interessa è il paesaggio dopo la tempesta. L’attaccamento alla vita nei campi di macerie e di cenere. Ma si può continuare a vivere insieme dopo tanta violenza e odio? Quale comportamento si deve adottare di fronte all’impunità? Rassegnarsi o farsi giustizia da soli? E quando si sceglie quest’ultima opzione, cosa significa uccidere un uomo?».
La critica
Ciad, 2006. Dopo decenni di stragi, viene concessa l’amnistia a tutti i criminali di guerra; ma il sedicenne Atim ha promesso al nonno cieco di farsi giustizia. Ucciderà l’uomo che ha provocato la morte di suo padre prima ancora ch’egli nascesse. Arrivato in città, il ragazzo conosce il colpevole: Nassara, un vecchio fornaio che parla con l’aiuto di un amplificatore, aspetta un figlio da una donna molto giovane e distribuisce pane ai poveri. Preso a bottega Atim, l’uomo gli insegna l’antica arte della panificazione. Tra i due, s’instaura un rapporto padre-figlio; Atim, però, non può dimenticare la promessa. C’è davvero qualcosa di speciale nel film africano Daratt, vincitore del Premio speciale della giuria a Venezia: in ciò che comunica, c’è un’ammirevole parabola sul perdono; nel modo in cui lo comunica, una naturalezza e una concretezza di gesti, oggetti, corpi che si trova solo nel grande cinema, da qualsiasi parte del mondo provenga. Sposando lo splendore del vero con le suggestioni della metafora (vedi le invalidità dei due vecchi), il film si spinge fino a ribaltare i ruoli sedimentati nel nostro immaginario (il giovane è un cuore di tenebra; l’anziano, limpido e diretto malgrado le efferatezze compiute); però senza mirare al paradosso né al teorema. Prima produzione del Ciad in concorso al Lido, Daratt ha anche il merito di inviare una parola di speranza e di vita dal tormentato continente africano, facendola apparire più forte di ogni odio o sete di vendetta.
RRoberto Nepoti, la Repubblica, 1 giugno 2007
Per una volta è stata Venezia, e non Cannes, a scoprire e premiare un nuovo regista della cinematografia terzomondista. Capita di rado. All’ultima edizione del festival lagunare era infatti presente in concorso (non accadeva dal 1992) un film africano, Daratt, il terzo del ciadiano Mahamat-Saleh Haroun, che ha raccolto il Premio Speciale della Giuria. Sette anni prima, sempre a Venezia, l’allora esordiente Haroun portò Bye Bye Africa, e prese il premio come Opera prima. Tra il primo e il terzo, Abouna passò inosservato a Cannes. Col favore dei premi, e forse solo grazie a questi, si potrà vedere ora un film africano nelle sale italiane. Anche questa, cosa rara. Un cinema che ha il “suo” tempo, lento, che nulla condivide con quello frenetico del cinema di oggi. Un cinema che si prende tempo, per spiegare le ragioni di una storia tragica, una ferita aperta nel costato del Ciad, devastato, come molti paesi d’Africa, da una violenta guerra civile. Il regista Haroun nasce nel 1960, anno della dichiarazione d’indipendenza del Ciad, diviso tra un Sud animista e cristiano e un Nord musulmano. Una girandola infinita di governi, con l’alternanza di schieramenti e poteri, ha garantito, di fatto, uno stato generalizzato di impunità a vecchi e nuovi assassini, colpevoli di crimini orrendi. Daratt parte da questa premessa e si chiede, in forma di parabola, quasi una favola morale, come sia possibile condividere lo spazio di una stessa terra, tra criminali impuniti e vittime non pacificate, senza che vi sia stato un processo di riconciliazione. Il film inizia, non a caso, con una forzatura storica. Un vecchio cieco e suo nipote, Atim, ascoltano alla radio la dichiarazione del presidente della commissione Giustizia e Verità che annuncia, a fine dei lavori, l’amnistia di tutti i reati. In Ciad, a differenza che in Sudafrica, non c’è mai stata una simile commissione. L’amnistia come gesto unilaterale, che tutti perdona e tutti deresponsabilizza, non rientra nel giusto processo di comprensione e riconciliazione. La storia muove da qui: il vecchio cieco dà una pistola al nipote perché vada a cercare l’assassino di suo padre e lo uccida, faccia vendetta, per dare un senso alle atrocità attraverso la morte. Il giovane Atim (che vuoi dire “orfano”) raggiunge l’assassino di suo padre, Nassar, ma non essendo un killer sente il bisogno di conoscerlo prima di ucciderlo. Nassar, panettiere in un villaggio, è braccato dal senso di colpa delle sue tremende gesta. Quando Atim gli si avvicina, con la pistola nascosta dietro la schiena, Nassar gli offre un tozzo di pane. Inizia da questo gesto, implicitamente di pace, un’amicizia, un lento conoscersi. Storia di formazione e d’utopia, Daratt s’impone per la forza tranquilla del suo dettato. Scorre lento su ferite aperte, le leviga e vi entra dentro senza retorica, né ricatti. Si muove, in un fare realistico, per ampie metafore: conoscenza, riappacificazione e perdono sono passi di un percorso di coerenza e non imposizioni. Nassar non riesce a parlare se non con uno strumento appoggiato sul collo, il vecchio nonno è cieco... I testimoni di un passato non si vedono e non si parlano. Atim, giovane e disperato, è il loro punto di contatto, il presente e il futuro di una possibile riconciliazione, l’acqua fresca che rigenererà la “stagione secca” (questo vuol dire “Daratt”) del Ciad.
DDario Zonta, Rolling Stone, giugno 2007
[...] Molte sono le questioni che attraversano il film, tra queste un posto di rilievo merita la riflessione condotta sull’omicidio. Sempre evocato, sempre presagito o sul punto di accadere esso è il vero fuoricampo del film. La morte (una morte violenta e inattesa) è l’alfa e l’omega: la culla in cui Atim è stato nutrito e il luogo verso cui tende; il demone che ha soggiogato Nassara; l’ossessione verso la quale gli occhi del nonno sono rivolti. [...] Atim è simbolicamente posto all’incrocio tra due figure adulte opposte e complesse nella loro definizione. Il nonno, colui che ha subito il lutto più terribile, è portatore di una parola inflessibile e di vendetta. La cecità dell’anziano rimanda non solo alla ferita subita ma anche a una posizione da intransigente profeta ammonitore. Nassara, l’omicida, si pone invece come un maestro di vita. Addirittura, come un possibile padre, visto che l’uomo ad un certo punto decide di adottare il ragazzo. [...] Il film combina ammirevolmente l’urgenza politica di fare un film su una guerra civile e il fascino di una materia quasi mitica, per il grado di epurazione cui sono sottoposti luoghi e personaggi. L’apice di questo procedere si coglie nella sequenza finale, dove i nodi dovrebbero venire al pettine. Qui, in uno spazio improvvisamente desertico, come in un western, avviene il regolamento dei conti. Nassara è portato da Atim al cospetto del nonno che ne chiede la morte. La scena è costruita in modo tale da offrire diverse interpretazioni (una per ogni personaggio) senza esaurirne la complessità. Vendette, perdono, umiliazione e presa di coscienza formano la cornice di uno snodo che è indicibile perché riguarda l’intimo di una coscienza. Atim rifiuta, dunque, tanto la riproduzione della violenza che gli richiederebbe suo nonno, quanto il desiderio di liberarsi la coscienza che gli offre Nassara. In quello spazio di perdita e rinascita che è il deserto, Haorun celebra il requiem di una generazione, quella degli adulti, e lascia la parola a una nuova. Con l’auspicio che, non dimenticandosi del passato, si riveli più matura, responsabile e misurata.
CCarlo Chatrian, Cineforum, n. 459, novembre 2006
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