Flags of Our Fathers
Titolo originale: Flags of Our Fathers
Regia: Clint Eastwood
Sceneggiatura: William Broyles jr., Paul Haggis. Fotografia: Tom Stern.
Montaggio: Joel Cox. Musica: Clint Eastwood. Scenografia: Henry Bumstead.
Interpreti: Ryan Philippe (John “Doc” Bradley), Jesse Bradford (Rene Gagnon),
Adam Beach (Ira Hayes), John Benjamin Hickey (Keyes Beech),
John Slattery (Bud Gerber), Barry Pepper (Mike Strank).
Produzione: Malpaso Productions. Distribuzione: Warner Bros.
Durata: 132’. Origine: Usa, 2006.
Il regista
Clint Eastwood: classe 1930, nato a San Francisco. Lo ritroviamo in perfetta forma dopo Mystic River e Million Dollar Baby. Con due film strettamente accoppiati, entrambi sulla conquista dell’isola di Iwo Jima, nel Pacifico, durante la seconda guerra mondiale. Eastwood si riconferma ancora una volta il continuatore della tradizione classica del cinema americano. Ha una carriera infinita alle spalle: 56 film interpretati, protagonista in 45, ne ha diretti 25 e prodotti una ventina, 4 Oscar con Gli spietati. Un Leone d’oro alla carriera a Venezia. Ha cominciato nelle serie televisive (Rawhide) e in film di serie B, come Tarantula (1955) o La vendetta del mostro (1955). Lo scopre Sergio Leone: Per un pugno di dollari (1964), Per qualche dollaro in più (1965), Il buono, il brutto, il cattivo (1966). Torna in patria, continua a recitare in film di altri registi, soprattutto di Don Siegel (La notte brava del soldato Jonathan, 1971, Fuga da Alcatraz, 1979), poi esordisce nella regia con Brivido nella notte (1971) cui seguono Lo straniero senza nome (1972) e tanti altri film tra cui Il texano dagli occhi di ghiaccio (1976), Bronco Billy (1982), Honkytonk Man (1982), Bird (1990), Gli spietati (1992), Un mondo perfetto (1993), I ponti di Madison County (1995), Potere assoluto (1997), Mystic River (2003), Million Dollar Baby (2005) e adesso questi due film, uno accanto all’altro.
La critica
Una flotta sterminata riempie lo schermo di Flags of our Fathers: così la macchina da presa mostra, in campo lunghissimo, la potenza della marina degli Usa, in rotta verso Iwo Jima. Sulle navi, fieri di quella potenza che tutti li avvolge e li tiene, i marine esultano. Ai loro occhi la guerra è questo procedere insieme, verso una meta totale piena di senso e di valore. Veloci, stormi di bombardieri passano sopra le navi. Nel loro ruggito c’è il segno della forza e della gloria che, così si immagina, presto sarà di tutti. All’improvviso, un marine precipita dagli spalti. Dapprima la macchina da presa gli sta addosso, come gli sguardi dei suoi compagni. Tra di loro, e forse anche in platea, nessuno immagina quel che accadrà. Per quanto la sua vita sia solo un dettaglio sullo sfondo dell’oceano, certo su una di quelle grandi navi qualcuno darà un ordine. Certo, ancora, verrà lanciata una cima o sarà calata una barca. E però, senza scampo, il dettaglio si allontana e svanisce, singolarità insignificante nel senso totale della scena. Di questo racconta il film scritto da Paul Haggis e William Broyles, a partire da un libro di James Bradley e Ron Powers: del tragico perdersi dei singoli nella totalità della guerra. Come Steven Spielberg in Salvate il soldato Ryan, Clint Eastwood porta il suo e il nostro sguardo sull’altro lato della guerra, appunto, e del racconto che usiamo farcene. Questo lato era reso evidente nella prima, grande sequenza del film de1 1998. Sbarcando sulle coste della Normandia, i soldati non trovavano né gloria né senso. Al contrario, erano inghiottiti in un oceano d’orrore. E anche il cinema smarriva coerenza e narratività nell’insignificanza dei corpi straziati. Come Spielberg, anzi meglio di lui, Eastwood “racconta” lo sbarco su Iwo Jima, nel febbraio 1945. Alle spalle dei marine c’è la potenza della macchina di guerra, coerente e tesa verso la propria meta. Più d’una volta l’occhio del cinema s’allontana dalla spiaggia e mostra la totalità della scena. E però, in un radicale controcampo del senso, mostra poi i dettagli incoerenti dell’orrore, ben addosso agli uomini che muoiono. Incalzati dal montaggio, persi nel vuoto di immagini che non si “legano” fra loro, ma che fra loro si urtano come urla di terrore, difficilmente corriamo il rischio di restituire senso a quell’accumularsi di morte. Non c’è tentazione epica, non c’è possibilità eroica, su quella spiaggia. Moltiplicato per tante volte quanti sono quei “dettagli” che muoiono, c’è invece lo stesso sgomento sofferto per il marine che nessuna nave s’è fermata a raccogliere. D’altra parte, come si dice all’inizio di Flags of our Fathers, sulla complessità, sulla contraddittorietà, sull’insensatezza degli accadimenti umani succede che si stendano poi coerenza e semplificazione. E allora è come se i dettagli - la loro sofferenza, la loro morte, e anche la loro grandezza - fossero di nuovo riportati alla scena generale, e in essa venissero derubati della loro irripetibile unicità. Basta una fotografia, e per di più “falsa” - quella famosa della bandiera, scattata il 23 febbraio da Joe Rosenthal - per fare di Iwo Jima ciò che non fu, soprattutto per chi vi morì. Come se per loro una barca fosse stata calata in mare, John “Doc” Bradley (Ryan Philippe), Ira Haynes (Adam Beach) e Rene Gagnon (Jesse Bradford) vengono recuperati dall’orrore in cui sono stati mandati a perdersi. Hanno salva la vita, ma solo perché accettino di dimenticare, di mentire, e anzi proprio di mettere in scena il loro eroismo. Devono tornare a innalzarla, quella bandiera che altri hanno davvero alzato. Lo devono fare in uno stadio gremito di uomini e di donne, tutti insieme entusiasti e urlanti, così simili ai marine in rotta verso Iwo Jima. Tornati in patria, dunque, sono chiamati eroi, ma non riescono a convincersi d’esserlo. Ognuno a suo modo, dettagli singolari anche in questo, hanno troppo vive nella memoria le immagini terribili della loro guerra, del loro perdersi nell’insignificanza. Non è la totalità della scena quello che per loro ha valore. Quello che davvero sentono, quello cui davvero restano coerenti, sono invece altre singolarità. Eroe, conclude Flags of our Fathers, non è chi muore per la patria, ma chi si mette in rischio per la vita del “dettaglio” che gli sta di fianco.
P.s. Quando già scorrono i titoli di testa, passano sullo schermo fotografie recuperate dal mare del tempo. Vi si vedono, in bianco e nero, gli esseri umani che allora morirono, o che soffrirono la morte degli altri, compagni e nemici. Conviene guardarli con attenzione e commozione, quei loro volti singolari e irripetibili.
RRoberto Escobar, Il Sole 24 Ore, 19 novembre 2006
Quarant’anni fa, un John Ford amaro e malinconico si interrogava sulla verità e la sua mitizzazione con L’uomo che uccise Liberty Valance. E anche se faceva pronunciare a un giornalista la celebre frase per cui, nel West, «se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda» poi impiegava tutto il film per spiegare che in fondo realtà e leggenda erano la stessa cosa e che John Wayne e James Stewart (gli «uccisori» di Liberty Valance, il primo vero, il secondo leggendario) rappresentavano due momenti successivi della stessa America, il pioniere e il cittadino, l’uomo d’azione eroico e l’idealistico servitore della comunità. Oggi Clint Eastwood, con Flags of Our Fathers («Le bandiere dei nostri padri», ma perché non tradurre il titolo?), sembra tornare sugli stessi interrogativi, quando racconta non tanto la battaglia per conquistare l’isoletta di Iwo Jima quanto il valore simbolico che fu attribuito a una fotografia che il reporter dell’Associated Press Joe Rosenthal scattò durante i combattimenti. A cambiare totalmente, però, è l’ottica: oggi non possiamo più dire che leggenda e realtà siano la stessa cosa. Anzi. Fin dalle primissime scene, la regia sottolinea con forza il sempre maggior successo che quella foto, che immortalava sei soldati mentre innalzavano una bandiera americana sul monte Suribachi, ottenne in patria. Ogni giornale la mise in prima pagina. Ogni americano fu convinto di leggervi la forza del proprio Paese e la speranza di una vittoria vicina. E il governo pensò di usarla per vendere buoni del Tesoro coinvolgendo, mentre ancora si combatteva, gli unici tre superstiti di quell’impresa. La guerra, nel film, viene dopo. Così come viene dopo la domanda sull’autenticità di quella foto (che pure scatenò molte polemiche). A Eastwood sembra interessare soprattutto il meccanismo mediatico che trasforma un’immagine in un mito, anche se la realtà dei fatti è stata molto diversa. Il vero cuore del film è proprio qui, nello scarto tra «leggenda» e «realtà». E nella scoperta che uno finisce per cancellare l’altro. Lo dice all’inizio del film la voce fuori campo del capitano Severance, quando ricorda che «qualsiasi somaro crede di sapere cos’è la guerra (...). Le cose piacciono semplici e lineari: buoni e cattivi, eroi e canaglie» e invece i fatti «quasi mai sono come li immaginiamo noi». Lo ribadiscono i comportamenti dei tre reduci – l’infermiere «Doc» Bradley, il portaordini Rene Gagnon e il marine Ira Hayes - quando il film, di fronte alle acclamazioni collettive, ci rivela i loro lati meno eroici: gli incubi per non essere riuscito a salvare dei compagni per il primo, la furbizia di chi vuole sfruttare un insperato momento di gloria per il secondo, e per il terzo l’angoscia, da annegare nell’alcol, di chi sa che sta «mentendo». E ce lo ricorda con forza lo stesso Eastwood quando decide di girare un secondo film (che uscirà all’inizio del 2007) sulla stessa battaglia, ma vista con gli occhi non di chi vinse ma di chi perse, cioè dei giapponesi. Come a dire che non può esistere un unico modo di raccontare la realtà. [...]
PPaolo Mereghetti. Il Corriere della Sera, 10 novembre 2006