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Lettere da Iwo Jima - Scheda del film

CINEFORUM ARCIFIC OMEGNA

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in collaborazione con:

CINEMA SOCIALE – S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

PREMIO GRINZANE CINEMA

Giovedì  20 marzo 2008 – scheda n. 22 (752)

 

Lettere da Iwo Jima

 

Titolo originale: Letters from Iwo Jima

 

Regia: Clint Eastwood

 

Sceneggiatura: Iris Yamaschita. Fotografia: Tom Stern.

Montaggio: Joel Cox. Scenografia: Henry Bumstead, James J. Murakami.

Musica: Kyle Eastwood, Michael Stevens.

Interpreti: Ken Watanabe (il generale Tadamichi Kuribayashi), Kazunari Ninomiya (Saigo),

Tsuyoshi Ibara (il barone Nishi), Ryo Kase (Shimizu),

Shido Nakamura (il tenente Ito).

Produzione: Malpaso Productions, Warner Bros. Distribuzione: Warner Bros.

Durata: 140’. Origine: Usa, 2006.

 

Il regista

 

Abbiamo già ricordato la carriera e i meriti di Clint Eastwood sulla scheda di Flags of Our Fathers, il film “gemello” di questo. Riportiamo qui alcune dichiarazioni di Eastwood su Lettere da Iwo Jima: «Ho cercato di mettermi nei panni dei soldati giapponesi. Ho approfondito la loro storia e cercato di immedesimarmi nella loro situazione. All’inizio è stata una semplice curiosità quando stavo girando Flags: volevo saperne di più sui difensori dell’isola di Iwo Jima, sapere quali fossero i sentimenti del generale Kuribayashi verso la sua famiglia così come traspare dalle sue lettere, poi il resto è venuto naturale... Conosco il cinema giapponese perché, a Los Angeles, quando facevo l’università negli anni ’50, c’era un piccolo cinema che faceva solo film giapponesi. Lì conobbi I sette samurai, Rashomon, Yojimbo e diventai un fan di Kurosawa, tutti lo erano allora. Poi a Cannes ho avuto il privilegio di incontrarlo e di passare un po’ di tempo con lui, ma non ho mai lavorato nel cinema giapponese... Ho deciso di dedicare due film allo stesso episodio: tutto è nato dalle ricerche che ho fatto. All’inizio ero incuriosito dal libro di Bradley, da cui ho tratto Flags of Our Fathers, che è una specie di giallo visto che un figlio cerca di scoprire cosa aveva fatto il padre durante la guerra. Andare a esaminare il lato giapponese della vicenda è stata una logica conseguenza. Mi sembrava una cosa da fare assolutamente, e una sfida, confrontarmi con una cultura diversa... Ho deciso di trattare la pellicola in modo da usare pochi colori. In pratica, si usa una tecnica che permette una desaturazione dei colori così da far emergere in maniera più netta i neri. Credo che sia anche una questione di gusto personale: la guerra in Technicolor per me non riesce ad avere le atmosfere giuste, sarà che sono cresciuto con film degli anni ’40 in bianco e nero. In Flags c’è una desaturazione maggiore nelle scene di guerra e molto minore nelle parti in cui i protagonisti tornano alla civiltà. Ho fatto qualcosa di simile in Lettere da Iwo Jima, specialmente nei flashback dei personaggi durante i ricordi della vita da “civili”... Ogni guerra ha dei tratti simili alle guerre del passato e del presente. Ma non sono stato influenzato da quello che accade ora, ho solo seguito la storia. Mi interessava mostrare gli effetti di un conflitto sugli individui e vedere come la guerra abbia un impatto che elimina il concetto di nazionalità. Tutti, a casa, soffrono allo stesso modo per la perdita di una persona  amata morta in battaglia...».


La critica

 

Un piccolo punto grigiastro: così, perso sullo sfondo della battaglia di Iwo Jima, Clint Eastwood e lo sceneggiatore Paul Haggis mostrano la bandiera che i marine alzarono più di 60 anni fa. Di quella bandiera, e delle morti che nutrirono il suo mito, il regista ormai settantaseienne ha raccontato in Flags of our Fathers (2006). A quei fatti, ma non più a quel mito, torna ora con Lettere da Iwo Jima (Letters from Iwo lima, Usa, 2006, 140’). Ed è come se la sua macchina da presa compisse un controcampo del senso, tanto coraggioso quanto morale. Una sorta di controcampo è già l’immagine di quel puntino grigiastro. Fotografata da Joe Rosenthal, la bandiera piantata dai marine il 23 febbraio 1945 diventa subito negli Usa il simbolo d’un nuovo entusiasmo e d’un nuovo sostegno alla guerra. Però, vista con gli occhi degli altri, dei giapponesi che si oppongono allo sbarco di 100mila americani, non è che un frammento anonimo nella totalità della catastrofe. Infatti la regia la mostra quasi per caso, dall’interno d’una grotta, tanto lontana da perdersi nell’indifferenza. In quel buco, e nei molti altri fatti scavare nella roccia dal generale Tadamichi Kuribayashi, più di 20mila uomini attendono di morire. È questo il cuore di Lettere da Iwo Jima, questo trionfo della morte. Anche Flags of our Fathers ne è colmo, ma con un diverso accento. In quel film si tratta in primo luogo dell’opposizione fra le vite dei singoli e la macchina della guerra: in nome di questa, e nella speranza della vittoria, quelle vengono sacrificate e addirittura dimenticate. Quindi si tratta della certezza che nessuna speranza di vittoria riesce a contraddire, e neppure più a nascondere. Se nel campo americano la morte dei singoli ha una sua orribile, nefasta “utilità” collettiva, nel controcampo giapponese non ne ha alcuna.
Per gran parte, Lettere da Iwo Jima è girato nel buio di questa morte attesa (e in quel buio i suoi colori perdono cromatismo, quasi riducendosi a sfumature di grigio, a parte il rosso del sangue). Già sottoterra, chiusi dentro i loro buchi, la maggioranza dei soldati e degli ufficiali neppure immagina d’aver diritto alla vita. Eastwood li osserva con pietà in questa rinuncia interiore, in questa morte prima della morte. Non conta chi siano stati, 60 e più anni fa. Conta il nostro sguardo su di loro, e insieme conta lo sguardo del cinema che oggi li riporta “alla luce”, ancora vivi per il tempo breve di un film. D’altra parte, non tutti a Iwo Jima attendono la morte allo stesso modo. Molti non hanno occhi per se stessi, per le ragioni della propria fragile singolarità, ma solo per la patria e per la sua pretesa d’assoluto. E a quell’assoluto affidano la propria coscienza, prima ancora che la propria vita. Muoiono da eroi, o così immaginano. Ma prima costringono altri a imitarli. Sono certi che niente valga di per sé, se non in vista di quel principio assoluto, e che solo la morte dia la misura del suo valore. Altri, pochi, non si lasciano vincere dalla prepotenza cieca di questa ideologia funesta. Per loro è la coscienza del singolo ma non c'è coscienza che non sia del singolo – il luogo dove vivono la moralità. «Fai quello che ti sembra giusto, perché è giusto», un soldato scrive alla madre, appunto. E intende che il giusto è tale in quanto “sembri”, cioè in quanto sia il risultato di una domanda interiore, di una interrogazione di sé, e non di una subordinazione a un principio esterno e totale.
Viene dall’America, quella lettera. La trova il barone Nisbi (Tsuyoshi Ihara) addosso a un marine morto. Quando la legge ai suoi uomini, a tutti pare che quell’esortazione sia per loro, come se quella madre avesse scritto a ognuno di loro. È questo un ulteriore controcampo di Lettere da Iwo lima, ancor più coraggioso di quello della bandiera. Il suo capovolgimento non riguarda eserciti in guerra e nemmeno civiltà che si “scontrano”. Più semplicemente, e più radicalmente, riguarda gli occhi di quei soldati, cioè la loro prospettiva morale e la loro libertà interiore. E certo riguarda allo stesso modo la dignità e la libertà interiore dei loro “nemici”. Quanto a Clint Eastwood, sempre più grande sempre più classico, sono suoi gli occhi che vedono le ragioni di questo controcampo, e che ce le mostrano. Ci riescono nonostante il buio in cui siamo tentati di chiuderci, oggi come più di 60 anni fa.

RRoberto Escobar, Il Sole-24 Ore, 25 febbraio 2007

 

Il monumentale doppio progetto di Clint Eastwood aggiunge un nuovo capitolo all’inarrestabile ascesa del suo talento, che pare non debba smettere mai di sorprendere e suscitare ammirazione. Se Flags of our fathers raccontava la battaglia di Iwo Jima secondo il punto di vista americano, Lettere da Iwo Jima racconta di nuovo lo stesso episodio ma visto dagli avversari giapponesi. Iwo Jima, piccola isola giapponese in mezzo al Pacifico, fu all’inizio del 1945 un nodo strategico per le sorti della guerra nippo-americana. Così come per il primo film, Eastwood si è affidato a tracce documentate, così qui ha seguito come filo conduttore quello della corrispondenza (bellissima la scena iniziale in cui, molti anni dopo, vengono ritrovate sull’isola centinaia di lettere di soldati mai partite e mai giunte a destinazione) e in modo particolare le lettere, raccolte in libro, del comandante giapponese sull’isola, il generale Kuribayashi, scritte alla sua famiglia. Eastwood si è lasciato ispirare da questa figura singolare. Kuribayashi aveva lungamente soggiornato negli Stati Uniti tra gli anni Venti e Trenta, ed era un estimatore del popolo americano. Ciononostante, nonostante la sua visione non allineata al militarismo giapponese e nonostante la sua diversità dagli altri ufficiali imbevuti di odio verso il nemico sconosciuto, egli diresse e combattè fino in fondo la sua guerra già persa in nome dell’onore ma anche con metodi ingegnosi. Accanto a quella del generale il film mette a fuoco altre figure umane come quelle del nobile campione di sport equestri, dell’ufficiale tutto d’un pezzo, dell’umile soldato, fornaio nella vita civile, che miracolosamente scampa alla strage perché aveva giurato a se stesso di rimanere vivo, per poter vedere il figlio nato durante la sua lontananza. Come il precedente questo non è un film di guerra ma un film sugli esseri umani che le guerre hanno sacrificato. È un saggio di misericordia, come sempre per questo magnifico cineasta senza semplificazioni o scorciatoie, semplice e complesso allo stesso tempo.

PPaolo D'Agostini, la Repubblica, 16 febbraio 2007

 
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