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Still Life - Scheda del film

CINEFORUM ARCIFIC OMEGNA

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in collaborazione con:

CINEMA SOCIALE – S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

PREMIO GRINZANE CINEMA

 

Giovedì  10 aprile 2008 – scheda n. 25 (755)

 

 

Still Life

 

Titolo originale: Sanxia haoren.

 

Regia: Jia Zhang-ke.

 

  Sceneggiatura: Jia Zhang-ke, Sun Jianmin, Guan Na.

Fotografia: Yu Likwai. Montaggio: Kong Jinglei. Musica: Lim Giong.

 Suono: Zhang Yang. Scenografia: Liang Jindong, Liu Qiang.

Interpreti: Zhao Tao (Shen Hong), Han Sanming (Sanming).

Produzione: Xstream Pictures, Shanghai Film Group. Distribuzione: Lucky Red.

Durata: 102’. Origine: Cina, 2006.

 

 Il regista

 

Jia Zhang-ke, il massimo regista cinese di oggi, è nato nel 1970 a Fenyang, una cittadina della provincia settentrionale di Shanxi, vicino al famoso Fiume Giallo. A 18 anni, studia pittura a Taiyuan, si interessa alla letteratura, scrive il suo primo romanzo nel 1991. Poi entra all’accademia di cinema di Pechino. Nel 1994 dirige il suo primo lavoro, il corto Un giorno a Pechino. Nel 1995, fonda il gruppo cinematografico sperimentale giovanile, la prima organizzazione indipendente in Cina. Con il gruppo realizza due video,  Xiao Shan Going Home e Du Du, entrambi premiati. Dopo il diploma nel 1997, gira il primo lungometraggio, Xiaowu, cui segue il magnifico Platform, presentato a Venezia. Dopo il documentario In Public, realizza The World, film che si occupa della vita cittadina di Pechino. Nel 2006, vince il Leone d’Oro alla Mostra di Venezia con questo Still Life. Sta lavorando al film The Age of Tattoo.

 

La critica

 

Il quinto film di Jia Zhang-Ke comincia con un sinuoso pianosequenza circolare su un mucchio di povera gente chiassosa che si accalca su un battello in navigazione sullo Yangtze, il più lungo fiume asiatico (6300 km.) che attraversa la Cina da Est a Ovest. La telecamera si ferma su uno dei due protagonisti, inquadra il fiume e poi Fenjie, antica città in via di demolizione. Sarà sommersa nell’ambito del progetto idrico Tre Gole che prevede la costruzione di una diga di 180 m. d’altezza e 2500 m. di larghezza (iniziata nel 1994, sarà finita nel 2009) e la formazione di un lago di 650 km., rendendo obbligatorio il graduale trasferimento di un milione di persone. Quell’avvio è seguito nei successivi 100 minuti da molti altri, soffici pianisequenza. Il che, a Venezia 2006 - dove Still Life vinse a sorpresa il Leone d'Oro - indusse alcuni giornalisti/critici a definirlo una noia mortale. Non è vero: mentono o non sanno vedere. Sono di durata varia, tutti funzionali ai personaggi e alla narrazione. Il giovane Zhang-Ke (1970) è un narratore che toglie invece di mettere. Ha un gusto figurativo raffinato: basta vedere l’inquadratura di partenza di ogni pianosequenza. Non è, però, un esteta esibizionista e lavora con pochi mezzi e telecamere digitali. Come nei film di fiction precedenti, tutti esposti in festival europei (1998: Forum di Berlino; 2002: Cannes in concorso: 2000 e 2004: Venezia in concorso), ogni volta in modi diversi, si cimenta con un tema centrale: il costo del progresso tecnico, ossia le conseguenze, in termini umani e nella vita civile, della rapida trasformazione industriale in atto nella Repubblica Popolare Cinese. Non dimostra: mostra. Non denuncia: riflette, compiange, condivide. Il suo è un film corale con due personaggi principali: il minatore Han Sanming che si reca a Fenjie per cercare la moglie e la figlia che non vede da sedici anni; Shen Hong, giovane infermiera che vuole incontrare il marito, da due anni assente da casa. Due storie, due epiloghi diversi che permettono al regista e sceneggiatore (con Sun Janmin e Guan Na) di mettere a confronto due condizioni socio-culturali, popolare e borghese, sia pure con dialoghi ridotti al minimo indispensabile. Hanno i sottotitoli, ma basta ascoltare le voci per captare le differenze. Il racconto è diviso in quattro capitoli: Sigarette, Liquori, Tè, Caramelle, oggetti comuni di vita quotidiana carichi di scambio e comunicazione. Sulla base di una scrittura realistica quieta e puntigliosa è un film più complesso di quel che appare nei timbri e nei toni, con sorprendenti aperture quasi magiche: il ragazzino che canta; il castello che decolla e s’invola come un’astronave; l’equilibrista che nel finale cammina su un filo tra due edifici.

MMorando Morandini, Film Tv, 27 marzo 2007

 

Autentica sorpresa dell’ultima Mostra di Venezia - per l’inclusione nel concorso, fatta conoscere a festival già in corso; per la proiezione notturna, dimenticato da molti critici; e soprattutto per il (meritatissimo) Leone d’oro, che ha ribaltato tutti i pronostici – il film Still Life di Jia Zhang-Ke è una di quelle opere folgoranti e solo apparentemente sottotono che sanno lavorare nel cuore e nella mente dello spettatore per lasciare un traccia destinata a durare. Lo si intuisce fin dalla primissima scena dove un gruppo di persone trasportate da un traghetto viene ripreso da un lento carrello laterale ripetuto due volte, con una leggera ma significativa differenza tra l’uno e l’altro, per la diversa distanza con cui l’obiettivo riprende i volti delle persone. Come se in questo modo il regista volesse dirci che non basta un solo sguardo per capire davvero il mondo che ci circonda e che «rivedere» le cose può servire a penetrarne davvero il significato. Come fa la trama, «divisa» in due parti: due storie simili ma non uguali, ognuna delle quali non esaurisce il senso del film, ma lo integra e lo completa. C’è la storia di un minatore, venuto a cercare l'ex moglie che non vede da 16 anni, ma soprattutto a conoscere la figlia che non ha mai visto. E c'è un’infermiera, decisa a ritrovare il marito che da due anni manca da casa. A tenere insieme queste due storie, la città di Fangjie, destinata a essere sommersa dalla gigantesca diga delle Tre Gole, progettata per controllare le inondazioni del fiume Yangtze e in via di ultimazione. Due storie di riconciliazione e di riappacificazione che si riveleranno tutt’altra cosa. E uno dei più imponenti sforzi di modernizzazione della Cina (il progetto risale agli inizi del ventesimo secolo e Mao Tzedong l’aveva indicato come uno degli obiettivi prioritari della neonata Repubblica popolare) che in attesa di portare progresso lascia dietro di sé solo macerie e rovine. Come dice il titolo, il quadro di una natura morta (in originale Sanxia Haoren) che ha perso il fascino romantico delle composizioni artistiche e che invece rivela le ferite e le sofferenze di un mondo che non sembra più tanto convinto delle proprie scelte. Esponente di punta della «sesta generazione» (quella che viene dopo gli Zhang Yimou e i Chen Kaige), Jia riesce a trasmettere il senso di sconfitta e di rassegnazione che sembra imprigionare i destini dei suoi personaggi con un occhio solo apparentemente asettico e distante. Le scene più concitate sono quelle a margine, come le recriminazioni della moglie di un operaio infortunato al direttore di un cantiere. Il minatore e l’infermiera seguono invece un percorso fatto di silenzi, di domande senza risposta, di porte che si chiudono invece che aprirsi, quasi fossero entrambi rassegnati a una sconfitta che non può non arrivare e che però si concretizza senza drammi e quasi senza spiegazioni, schiacciata l’infermiera dallo sfrangiamento di quegli stessi sentimenti che l’avevano portata per due anni ad aspettare e poi inseguire un uomo sparito nel nulla, e schiacciato il minatore dal duro bisogno della sopravvivenza che lo porterà a rimettersi in cammino per cercare un lavoro che si annuncia più rischioso e difficile. Intorno a loro solo rovine e macerie, l’altra faccia di una modernizzazione che sta nascendo sulla distruzione del passato e che ci appare lontanissimo dal sogno multicolore cui ci ha abituato una certa immagine della Cina. Per costruire il nuovo bisogna prima abbattere l’esistente, ma la logica su cui si è basata tanta retorica rivoluzionaria qui sembra incepparsi: non c’è un indizio dell’annunciato «progresso», un segno del cambiamento previsto e il comportamento delle persone sembra troppo preoccupato di distruggere e mai di riedificare... Allo stesso modo, il fascino e la bellezza della natura sono rimaste solo un ricordo non più verificabile dal vero, una stampa sbiadita conservata solo sulle banconote, stampata sul retro del volto del presidente Mao, che il minatore rigira tra le mani e guarda come il fantasma di un’epoca che più lontana non potrebbe essere. È questo sguardo senza speranza e senza fiducia che il regista ci vuole trasmettere, quasi a riequilibrare l’immagine solo propagandistica di un Paese che dice di voler guardare al futuro e finisce per non avere neppure più la forza di vedere davvero quello ha davanti agli occhi. Proprio come succede ai suoi protagonisti che non si interrogano né si meravigliano di niente. Che cosa fa un uomo chiuso in una valigia tra le macerie? O una luce accecante che attraversa il cielo? Gli abitanti di Fengjie li guardano con la stessa curiosità che dedicano ai vecchi edifici che crollano, preoccupati solo che niente possa avere una qualche conseguenza diretta su di loro, come se tutto si riducesse a dei calcinacci da evitare. E quando uno strano palazzo disabitato parte all’improvviso verso il cielo, come un razzo spaziale, il minatore (e lo spettatore con lui) finiscono per dedicargli sono uno sguardo distratto, come a evitare domande troppo complicate cui dare risposte. Quelle stesse domande che Jia sembra voler porre sulla Cina e a cui troppo poche persone vogliono davvero rispondere.

PPaolo Mereghetti, Il Corriere della Sera, 23marzo 2007

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