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Scheda pdf (184 KB)
A Serious Man - Scheda del film

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALES.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 28 aprile 2011 – Scheda n. 26 (838)

 

 

 

 

 

 

A Serious Man

 

 

Titolo originale: A Serious Man

 

Regia, sceneggiatura: Joel e Ethan Coen

(anche montaggio sotto lo pseudonimo di Roderick Jaynes).

 

Fotografia: Roger Deakins. Musica: Carter Burwell.

 

Interpreti: Michael Stuhlbarg (Larry Gopnik), Aaron Wolff (Danny Gopnick),

Jessica McManus (Sarah Gopnik), Sari Lennick (Judith Gopnik),

Richard King (lo zio Arthur), Fred Melamed (Sy Ableman),

Adam Arkin (Don Milgram), Amy Landeker (la signora Samsky),

Alan Mandell (Rabbi Marshak), Claudia Wilkens (la segretaria di Rabbi Marshak),

George Wyner (Rabbi Nachtner), Simon Helberg (Rabbi Scott).

 

Produzione: Mike Zoess Productions. Distribuzione: Medusa.

Durata: 105’. Origine: Usa, 2009.

 

 

 

 

 

Joel e Ethan Coen

 

Si sprecano gli aggettivi iperbolici quando si parla e si scrive dei fratelli Joel e Ethan Coen: geniali, stupefacenti, ironici, tragici, eleganti, filosofici... Qui al cineforum li seguiamo fin dai loro inizi. Joel, 1954, Minneapolis, Minnesota, Usa. Ethan, 1957, stesso posto. A 10 anni scrivono e stampano un giornalino di cinema, The Sentinel. Girano corti surrealisti. Studiano cinema a New York. Joel sposa l’attrice Frances McDormand, futura poliziotta di Fargo. Esordio nella regia in coppia con Blood Simple (1984). Del 1897 è Arizona Junior, poi: Crocevia della morte (1990), Barton Fink (1991), Palma d’Oro a Cannes, Mister Hula Hoop (1994) e il bellissimo Fargo (1996), altra Palma d’Oro e Oscar per la sceneggiatura. Del 1998 è Il grande Lebowski, summa della filosofia coeniana. Poi: l’omerico Fratello, dove sei? (2000), il simil-noir L’uomo che non c’era (2001),  Prima ti sposo, poi ti rovino (2003), Ladykillers (2004), Non è un paese per vecchi (2007), il buffo Burn After Reading (2008). E infine A Serious Man (2009), seguito, pochi mesi fa, dal remake di un vecchio western, Il Grinta (2011). Hurrà per i Coen.

 

 

La critica

 

La serietà è un attitudine comportamentale passata decisamente di moda. Stando al vocabolario, l’aggettivo serio – applicato, come nel titolo dei film dei Coen, a un essere umano – indica qualcuno «degno della massima credibilità, fiducia, considerazione e stima in quanto rispondente ai requisiti di rettitudine, responsabilità, capacità». Larry Gopnik è questa definizione, né più né meno: lo è in modo sospettosamente perfetto, e come tutte le cose o le persone che possono essere intrappolate facilmente in un definizione, non evoca tanto la perfezione quanto la caricatura. Perché sulla stessa medaglia, assieme alla serietà, sull’altra faccia c’è l’ordine: altro concetto sufficientemente screditato – anche in termini estetici – da suonare ormai riduttivo se applicato a cosa, opera, persona. E nel 1967 in cui i fratelli Coen ambientano il loro A Serious Man – anno di lotte, rivolte, cambiamenti, con-fusioni, strappi, rivoluzioni (anche per quanto riguarda il cinema) – serietà e ordine sono termini ancor più sospetti: borghesi, retrogradi, forse fascisti, come rivelano quei film che, proprio in quegli anni, opponevano codici di comportamento e visioni del mondo, vecchio ordine e nuovo (dis)ordine (La guerra privata del cittadino Joe, 1970) e Alice’s Restaurant, 1969, per citarne due soltanto). La Storia, però, resta in A Serious Man rigorosamente sullo sfondo, anzi fuori campo, e la sociologia si trasforma in dramma privato e in commedia d’ambiente (ebraico). (...) Di veramente storico (con riferimento all’epoca e al luogo), nel senso di travolgente e definitivo, destinato a sancire chiaramente un prima e un dopo, c’è soltanto, per quanto sublimato nel simbolo, l’uragano che, nell’ultima inquadratura, irrompe sulla scena piccolo-borghese del film e lo interrompe, letteralmente (...). Rilanciando in conclusione la questione morale e filosofica (risolta religiosamente) che attraversa tutto il film: l’uomo è artefice del proprio destino o vive “alle dipendenze” di un’Entità superiore che, di tanto in tanto, e per ragioni non sempre chiare, si manifesta? Dall’altro lato, e come conseguenza di questa prima domanda, l’uragano finale rinnova (ancora una volta in chiave morale) un dubbio più privato: che cosa ho fatto (o non ho fatto) per meritare tutto questo? L’ordine e la serietà di Gopkin rappresentano, in effetti, il versante mondano di un’idea di essere umano plasmata dal confronto continuo con una religione, quella ebraica, profondamente prescrittiva e punitiva (almeno nella sua versione ortodossa, che è poi quella a cui si rifà il film). Gopkin, timorato di Dio, è convinto che la sorte della condotta terrena dell’uomo si fondi su un’equivalenza matematicamente lineare: il rispetto coscienzioso di un codice religioso di regole e comportamenti dovrebbe automaticamente produrre una condizione di felicità o, quantomeno, di “grazia”. Quando si tratta del rapporto con la religione e con il Dio che la maneggia, Gopkin, matematico geniale e “complesso”, accetta insomma la versione più semplice, senza mettere in conto la difficoltà delle operazioni, gli errori di calcolo, le imperfezioni dei risultati (per non parlare dello scoglio della dimostrazione). Gopkin è serio e ordinato e ha, della vita e di Dio, un’immagine semplice, quasi favolistica (e sul coté favolistico i Coen insistono non poco, dall’inizio alla fine). Questo dato, forse, è il più “storico” di tutti, quasi imbevuto di nostalgia: perché A Serious Man non è, come potrebbe sembrare al primo sguardo, un film sull’inesistenza di Dio, sulla fuga di ogni possibilità di fede, sul fatalismo e sul nichilismo contemporanei, sullo svuotamento di senso dei tempi in corso; è, al contrario, come una bella favola dolceamara, un film pieno di nostalgia per un mondo, un tempo, un genere d’uomo più semplici e ordinati. In cui le parole dicevano davvero qualcosa (contro i farfugliamenti dei rabbini); in cui le famiglie non cadevano a pezzi (come accade a quella di Gopkin); in cui i riti producevano senso, fossero quelli di una sinagoga o quelli altrettanto scritti della quotidianità famigliare (...). In proposito, il prologo, nella sua straordinaria semplicità (una favola che premette a una favola), funziona come racconto “biblico” (nel senso di originario): mostra, in un luogo e in un tempo imprecisati («All’origine…», appunto), l’annunciarsi di quella crisi della trasparenza di cui il mondo del film patisce le conseguenze, moltiplicate esponenzialmente: di fronte a una stessa realtà, un uomo e una donna reagiscono in modi completamente opposti, il primo fidandosi ciecamente di ciò che vede, sente e tocca (un vecchio, vivo e vegeto, infreddolito e affamato, seduto di fronte a lui); la seconda, al contrario, non credendo all’apparenza, e ricordando di aver assistito al funerale di quell’uomo, è convinta che ciò che vede non sia la realtà ma un inganno, l’immagine (il fantasma, il simulacro, il doppio) di un’esistenza già passata, la proiezione visiva di una maledizione. La crisi della trasparenza del mondo che si celebra nel prologo possiede dunque una precisa connotazione tipologica: da un lato, la ratio percettiva di chi si fida dei (e affida ai) sensi – vedo e ascolto questa realtà, e dunque ne posso certificare l’esistenza; dall’altro lato, la convinzione, necessariamente fideistica e dogmatica (vale a dire: nessuna prova reale richiesta), della vera natura di ciò che si vede e sente. E, giustamente, il prologo non dice chi ha ragione – entrambi, o nessuno dei due, poco importa. Quel divorzio e quell’opposizione sono, quindi, gettati nel mondo del film, contro l’ordine di un uomo serio. Che crede in modo certo e trasparente, salvo poi accorgersi che, per l’appunto, il mondo non ha nulla di matematico ed è fatto, al contrario, di incertezze, opposizioni irrisolte, punti di vista e soggettività profonda, anche per quanto riguarda la legge di Dio. Così, perfino la sua convinzione più forte – alla domanda «Siamo liberi o personaggi del romanzo divino?», Gopnik propende naturalmente per la seconda versione – viene scossa dal dubbio, che come nel prologo non si scioglie, perché non è possibile farlo. Resta aperto, forse produttivo, sicuramente – per quanto riguarda Gopnik – profondamente distruttivo. Se i Coen non sono reazionari, non sono però neppure dei fan del caos e della complessità. Di fronte alle cose rotte del loro film, scelgono di astenersi, glacialmente, come ben rivela lo stile che circonda l’avventura comicamente tragica (o tragicamente comica) di Gopkin e comprimari, e abbandonano il personaggio all’umorismo altrui – in quanto uomo serio semplice ordinato, Gopkin è il candidato ideale per trasformarsi in soggetto comico (somiglia straordinariamente a Harold Lloyd). La storia si disfa anche a causa di questo regime misto di commedia e tragedia, viene privata di un arco emotivo chiaramente tracciato, e i rapporti dello spettatore con i personaggi patiscono un’empatia schizofrenica. Anche rispetto al genere, dunque, A Serious Man è un film che non può appellarsi ad alcuna trasparenza (di genere). Il cinema è un luogo opaco, e la sospensione del finale risponde, a distanza, al dubbio del prologo (finale al quale, naturalmente, si può rispondere nei due modi del prologo: un semplice uragano – lo vedo e lo sento – oppure la manifestazione visiva di un’intenzione ultraterrena). Tutti gli interrogativi restano aperti, la nostalgia romantica incontra la lucidità della critica sociale, la pena (per il personaggio) scolora nel disprezzo, la fiducia nella traduzione dell’insegnamento divino in condotta umana (col suo gioco di punizioni/ricompense) perde per strada la sua solida grammatica dogmatica. A questo punto, di fronte a un paesaggio occupato da tante rovine accumulate dentro e attorno al personaggio di Gopnik, soltanto un regista serio avrebbe potuto raggiungere una sintesi e proporre una conclusione. Ma, in questo caso, serietà avrebbe fatto rima con stupidità.

LLuca Malavasi, Cineforum, n. 491, gennaio – febbraio 2010

 

 

 

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